Volevo bere la sera
con le mani chiuse a calice
- il chiaro confine
che disfa l’oriente,
la linea rosata
che spunta la notte -:
posato su ceppi di neve
e salubri brezze di vetro;
e tutto del futuro
racchiudevo in uno sguardo,
riflesso in specchi salmastri
nel bordo del mattino.
Sfogliando il libro d’esordio di Davide Belgradi, ritornano alla mente i consigli che più di un secolo fa Rainer Maria Rilke indirizzò a Franz Xaver Kappus e che poi furono raccolti nelle postume Lettere a un giovane poeta (1929). In particolare, un’osservazione appare memorabile, costituendosi, nella sua essenzialità, come indispensabile ago magnetico per chiunque voglia mettersi nel pelago della letteratura: «Un’opera d’arte è buona, se è nata da necessità». Ebbene, pur mostrandosi con indiscutibile evidenza, fin dalle prime pagine di questa raccolta, l’operosa e si vorrebbe dire umile ricerca di una pronuncia originale, è tuttavia possibile ipotizzare da non pochi riscontri testuali la presenza potente di una vocazione originata non già da usurate disposizioni sentimentali e prevedibile sensiblerie, ma da una coscienza del linguaggio che, negli esiti maggiormente convincenti, tende a farsi esperienza totale, irrinunciabile.