Non so per qual prodigio di natura,
io che tra voi, fraternamente, crebbi,
un’immagine fui, non creatura.
A una comprensione matura e problematica dell’opera di Giulio Gianelli – Gianellino, come solevano chiamarlo gli amici – fanno velo l’aneddotica e l’agiografia fiorite intorno alla sua figura di mite creatura dostoevskiana, di povero che porta fra i poveri la luce caritatevole del suo sorriso, la soccorrevole operosità della sua presenza. Orfano e privo di mezzi, dopo aver conseguito la maturità classica visse assai penosamente di lezioni private e collaborazioni editoriali. Frequentando l’ambiente della poesia torinese dei primi del Novecento raccolto intorno ad Arturo Graf, divenne amico fraterno di Guido Gozzano e Carlo Vallini, e pubblicò tre esili raccolte di versi che consentono di annoverarlo, con tratti di spiccata originalità, nella compagine dei poeti crepuscolari subalpini. La tubercolosi, che aveva attaccato la sua fibra minata dagli stenti, non gli impedì di raggiungere Roma per coadiuvare Giovanni Cena nelle iniziative sociali a favore dei contadini dell’Agro Romano, e poi Messina, per aiutare la popolazione colpita dal terremoto. Nella capitale si spense all’inizio dell’estate del ’14. La leggenda vuole che Eleonora Duse abbia deposto sul suo letto di morte, in ospedale, un mazzo di fiori di campo azzurri. Intimi vangeli (1908) è l’ultima silloge pubblicata dall’autore e ne costituisce, in un certo senso, il testamento poetico e spirituale.