a un metro dalla mano
con lacrime si stacca
in pianto ritorna a sé:
non foste voi a dirmi
a un moto della mano
(non è la mano è la
durata) in singulti si
guarda mancare e cade
qui?
La ricerca di Cesare Greppi si colloca, pur nella tensione di un impervio sperimentalismo (Stratagemmi esce nel 1979), lungo l’asse della più preziosa tradizione occidentale che, partendo dal remoto modello petrarchesco, trova in Góngora e Mallarmé due insostituibili riferimenti, pervenendo a certo Novecento italiano, cresciuto nel segno dell’Ungaretti di Sentimento del tempo.
Caratterizzati dalla grazia di una sorta di incorporeità araldica, non disgiunta tuttavia da una percezione sensuale e profonda del paesaggio, costantemente affiorante, questo, per sottrazione del superfluo nell’ossessione commossa di una emblematicità d’archetipo, levigata dall’esattezza di uno sguardo che si posa sugli oggetti quotidiani
che appaiono come per la prima volta nella loro accostante nudità, i versi di Cesare Greppi profumano di una terrestrità nietzschiana a testimoniare la strenua fedeltà dell’autore alle cose che sembrano scaraventate qui e ora nel disordine della creazione di un imperfetto demiurgo, esibendo attraverso eleganti volute intellettuali e impareggiabile sapienza formale l’austero splendore dell’ordinario e, insieme, l’immedicabile melanconia di una concezione della vita gnosticamente intesa come perdita e caduta. Nell’enigmatico teatro dell’anima dell’io poetante, si dispongono, quasi in rastremate visioni di inseguita armonia o splendente indecifrabilità, catene di nuclei semantici, talvolta eterogenei, sbocciati a una musica dimessa e quasi inudibile perché tremenda come tutto ciò che accade per sempre.